Parola #2
RELAZIONE
di MariaLucia Colì – Assessora alla Cultura del Comune di Cutrofiano
L’art. 3 della Costituzione recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Gli ostacoli sia fisici, sociali, economici sono da rimuovere in quanto non permettono lo sviluppo e la crescita della personalità. Come declinare l’accessibilità nei luoghi di cultura? Sono solo le barriere fisiche che impediscono la massima fruibilità di un luogo? La tecnologia oggi ci aiuta nell’assistenza e nella possibilità di accesso a luoghi e spazi comuni. Ma questa non può bastare a rendere inclusivo e accogliente un luogo. L’’inclusività passa anche e soprattutto dalla comunicazione, dalle parole che si usano e dalla cura con cui le scegliamo. Le parole sono atti, dei quali è necessario fronteggiare le conseguenze. Esse sembrano non avere peso e consistenza, sembrano entità volatili, ma sono meccanismi complessi e potenti, il cui uso genera effetti e implica responsabilità. Le parole fanno le cose, come suggerisce il titolo di un libro del linguista John L. Austin. Nelle maglie dell’approssimazione, dei luoghi comuni, della diffidenza e dell’imbarazzo che ci accompagna quando siamo chiamati a far fronte alle esigenze di un diversamente abile, l’inclusività la possiamo cogliere e agire in una maggiore sensibilità e empatia, in un linguaggio scevro da pregiudizi. Usare bene le parole ci rende cittadini migliori, spesso, infatti, i significati e le loro sfumature si confondono; di fronte ad un certo uso aggressivo, demagogico, sessista verrebbe voglia di invocare la virtù del silenzio e della riflessione.
La capacità di accoglienza, di intercettazione di un bisogno, di attivarsi concretamente per la risoluzione di un problema, trasformeranno la natura straordinaria di un accadimento in pratica ordinaria che incoraggerà una partecipazione sempre più ampia nei luoghi di cultura. È necessario, quindi, veicolare messaggi il cui contenuto abbia valenza inclusiva anche sul piano relazionale e semantico, in ogni aspetto della vita collettiva, al fine di rendere il nostro museo presidio di libertà. Inclusivi, aperti, accoglienti saremo se riusciremo a dialogare con l’alterità riconoscendo nell’eterogeneità del pubblico un tratto peculiare dell’essere umano. Possiamo sostenere che un museo è un luogo in cui si attua lo sviluppo armonico della personalità di ogni cittadino in quanto luogo di cultura e di democrazia; esso ha una funzione sociale: deve stimolare l’accesso alla conoscenza e alla memoria storica collettiva e custodire il nostro patrimonio culturale. I musei sono presidio di libertà, luoghi politici (riprendendo il significato
greco di polis),che usa il passato per costruire il futuro. Devono essere aperti a tutti, garantire l’accesso alla cultura, essere luoghi di democrazia e confronto. In un museo si costruisce la biografia dell’oggetto, si raccolgono quante più informazioni possibili sull’ambiente in cui è nato, sui motivi per cui è stato realizzato, sulle persone che lo hanno creato e lo hanno usato. Un oggetto è un mezzo per avviare un dialogo tra chi ci ha preceduto e chi ci segue, è un legame capace di creare un modello culturale.Per affrontare le sfide che la nostra epoca ci pone è necessario elaborare un modello di società inclusiva che sviluppi senso civico che faccia propria un’etica della responsabilità delle nostre azioni e edifichi nuove forme di comunità in cui coesistere pacificamente. Abbiamo costruito una società in cui tutto è stato ricondotto al valore economico, alla mercificazione, mentre le idee di società, di interesse pubblico, la tutela dei più deboli sono state rimosse o dimenticate. L’accessibilità ai luoghi della cultura, di musei e biblioteche, rappresenta l’impronta distintiva dell’identità di un popolo di costituirsi come un naturale spazio di confronto con realtà diverse, come valore che arricchisce e fa crescere perché capace di trascendere i confini geografici, perché la cultura non è ornamento dell’esistenza umana ma condizione essenziale per il benessere e il futuro della comunità. L’intento deve essere quello di costruire e realizzare luoghi di interesse comune in cui tornare a tessere relazioni con la comunità in cui è essenziale la partecipazione in prima persona di ciascuno, dove migliorare le condizioni di vita dei cittadini e sviluppare capacità di dialogo (logos ragionamento). È questo “l’agire politico”, di cui parla Hannah Arendt, capace di creare relazioni umane e si distingue dal fabbricare un’opera proprio perché è un’operazione che non si può compiere in solitudine, ma implica la collaborazione e quindi il coraggio necessario per proporre qualcosa di nuovo in un contesto plurale.
La strada per poter definire questo modello di comunità è di ri-pensare la cultura e i luoghi in cui essa si sviluppa, come garanzia di coesione sociale, come antidoto ai pericoli di una società che alla dignità dell’individuo vuole sostituire nuovi modelli di emarginazione, che al coraggio di affrontare le sfide del futuro sembra decisa a difendere i privilegi e le certezze del presente. Dobbiamo riscoprire la centralità della dimensione culturale in ogni ambito della vita associata: con l’obiettivo di concorrere all’edificazione di una società nella quale arte, bellezza, cultura si riappropriano del loro stato di beni comuni e contribuiscono alla ricostruzione del senso di appartenenza civile e sociale.
Oggi, al centro del discorso politico troviamo l’economia, la produzione, il lavoro a scapito dell’agire e così si è distorto il senso classico di libertà. La pensatrice ebraica, Hannah Arendt, ritiene che “ricondurre tutte le attività umane alla produzione e le relazioni politiche ad un rapporto di potere, abbia storpiato e pervertito lo spazio pubblico e le potenzialità dell’uomo in quanto essere portatore di politica”.
Al cospetto di una realtà così lontana da ciò che la democrazia dovrebbe garantire a tutti, in un mondo in cui l’economia e il profitto appaiono centrali rispetto alla capacità di persuadere e di deliberare il bene comune, la cultura deve essere intesa come capacità di relazioni con altri popoli. Costruire ponti che mettono in comunicazione uomini, non erigere muri che escludono mondi, possibilità, orizzonti, come capacità di agire sul mondo non per appropriarsene con un atto di dominio, ma con un atto d’amore. Essa ci ricorda chi siamo e ci invita a non rassegnarci e a cercare di vivere la nostra libertà. Un nuovo inizio è sempre possibile.
Jürgen Habermas sosteneva che la cultura è l’unico bene dell’umanità che, diviso fra tutti, anziché diminuire, diventa più grande. È quanto mai necessario considerare la cultura in tutte le sue manifestazioni, i monumenti, il paesaggio, i musei, le biblioteche, gli archivi, la musica, la cultura alta e la cultura popolare.