Parola #7

PARTECIPAZIONE
di Giorgio Coen Cagli – Dottorando presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali
Università del Salento

Il museo si fa casa | La comunicazione efficace e accessibile. Il caso del MIC Faenza

Introduzione: l’accessibilità, una sfida integrale
Vasi Comunicanti – Il museo dispensa della memoria può essere a buon diritto definita come un’esperienza di sperimentazione museologica a tutto campo. Nei sei laboratori tenuti tra dicembre 2023 e gennaio 2024, infatti, sono stati messi in gioco ruoli, saperi, competenze, oggetti, spazi e tempi del museo, dei suoi collaboratori e dei suoi pubblici.
Il termine “laboratori” è quanto mai opportuno: non solo per il tipo di attività proposta, ma anche per sottolineare l’approccio “artigianale” che ne ha contraddistinto la pianificazione e la messa in opera, attraverso accomodamenti necessari e proficui aggiustamenti. Ed è ancora osservando questo modus operandi (fondato su principi e indicazioni cui si dirà più avanti) che si è deciso di rendere conto di tali adeguamenti progressivi, degli imprevisti e delle criticità, intesi come fonte cruciale di arricchimento per tutti gli attori coinvolti.
Va da sé che questo approccio laboratoriale trovi cornice e materiali adeguati nel Museo della Ceramica di Cutrofiano, votato alla tutela e alla valorizzazione dell’artigianato locale – come testimonianza di una vera e propria “civiltà della ceramica” (la Cutrofiano di un passato non troppo lontano) e come risorsa per un futuro che ne riconosca e sfrutti l’importanza in termini culturali, sociali, economici (cfr. Imperiale, Blattmann D’Amelj, & Matteo, 2022)
Sviluppato in seno ad un Avviso Pubblico del MiC, finanziato dall’ Unione Europea, dedicato all’accessibilità dei luoghi della cultura, Vasi Comunicanti ha interpretato in maniera radicale il mandato di partenza, ponendo il pubblico al centro dell’iniziativa, abilitandolo a partecipare attivamente alla (ri-)produzione del patrimonio culturale. L’accessibilità, dunque, pensata attraverso un altro concetto – chiave della museologia contemporanea: la partecipazione. Il coinvolgimento attivo, cioè, di diversi pubblici intesi non come altrettanti target di spettatori (cfr. Jenkins, 2006), ma come collettività di individui, ciascuno con le proprie storie e le proprie aspettative (cfr. Simon, 2009). È convinzione di chi scrive, infatti, che un museo accessibile altro non sia, in fin dei conti, che un museo radicalmente aperto: a nuove prospettive, diverse conoscenze, altri contenuti rispetto a quanto già “in collezione”. Ciò è possibile solo a patto che il museo rinunci al monopolio delle competenze e dei saperi sul patrimonio, aprendosi alla partecipazione di un pubblico variegato, portatore di storie e opinioni che l’istituzione sappia non solo ascoltare, ma stimolare ed amplificare (Sandell, 2003 e 2003b)

  1. Creative aging, narrazione, ricerca sociale: i riferimenti teorico – metodologici del progetto

A partire da queste premesse, Vasi Comunicanti è stato messo a punto attraverso una serie di riferimenti teorico – metodologici ai quali è opportuno accennare in seguito ad una schematica presentazione delle attività svolte.
Ciascun laboratorio è consistito in una visita alla collezione del Museo, focalizzata sul lavoro nelle botteghe di ceramica (soprattutto passate, ma anche presenti) e su alcuni oggetti di particolare interesse, perché legati a tradizioni locali (note o sconosciute, viventi o passate). A seguito della visita guidata, gli stessi partecipanti hanno preso parte ad un workshop di produzione ceramica guidata da esperti maestri salentini, con l’obiettivo di realizzare un piccolo vaso. La realizzazione dei vasetti è accompagnata dalla conversazione tra partecipanti a proposito di una serie di temi introdotti dai responsabili di progetto, in qualità di facilitatori e moderatori: implicazioni positive e negative della patrimonializzazione delle tradizioni locali (e in particolare della ceramica cutrofianese), importanza della valorizzazione culturale per il territorio, caratteristiche e compiti dei musei, ecc. Ancor più che questa dimensione argomentativa, viene sollecitata dai responsabili di progetto la condivisione di storie e aneddoti legati alla ceramica esposta, ovvero all’universo di tradizioni e pratiche quotidiane ai quali essa rimanda.

2.1 il Creative aging
In fase progettuale, ha giocato un ruolo importante il riferimento al paradigma del creative aging. La qualità dell’invecchiamento dipende in gran parte dalle attività in cui siamo coinvolti e dagli stimoli che forniamo alla nostra mente e al corpo (Cohen, 2009). In quest’ottica, il costrutto di creative aging rappresenta un modello teorico nuovo che promuove l’invecchiamento attivo mediante il lavoro manuale, l’espressione creativa e la stimolazione cognitiva. La creatività, in qualsiasi sua forma, non conosce limiti di età. Dare forma all’esperienza ed espressione personale attraverso la creatività manuale promuove le relazioni e le connessioni sociali, aumenta l’autostima e riduce lo stress. Inoltre, prendere parte a lezioni o laboratori può diventare (come nel nostro caso) un veicolo per raccontare storie di vita, esplorare le proprie emozioni e mantenere viva e attiva la parte creativa del nostro cervello (Malchiodi, 2011). Lo stimolo della manualità offre dunque benefici mentali: produrre oggetti artigianali, come semplici lavori in ceramica, può aumentare il senso di realizzazione personale, andando ad agire positivamente sulla propria autostima. Da un punto di vista neuropsicologico, stimolare la mente è fondamentale per contrastare il declino cognitivo; imparare a svolgere nuove attività, migliora la concentrazione e promuove la flessibilità cognitiva (Verghese et al., 2003). Attività intellettualmente e artisticamente stimolanti possono aumentare quella che è la nostra “riserva cognitiva”, aiutando a ridurre il rischio di sviluppare disturbi legati all’età, come le demenze (Valenzuela & Sachdev, 2006).
Ragionare nell’ottica di una sinergia tra stimolazione cognitiva e attività artistiche o artigianali non solo potrebbe arricchire l’esperienza del singolo individuo, ma contribuire allo sviluppo di una società improntata alla valorizzazione della persona, indipendentemente dalla fascia d’età, dallo status e dalla condizione psico-fisica (Noice et al, 2014). L’invecchiamento, in particolare, diventa così una tappa della vita inevitabile, che permette all’individuo di cogliere nuove opportunità di crescita personale contribuendo al raggiungimento di un buon livello di benessere complessivo.
In sintesi, l’interconnessione tra creatività, lavoro manuale e stimolazione cognitiva può massimizzare i benefici per l’invecchiamento attivo (Windle et al., 2014). Incorporare attività ed esperienze creative nella vita quotidiana degli anziani, così come di altre popolazioni con diverse peculiarità psichiche e cognitive, potrebbe migliorare la loro qualità della vita.
La possibilità di coinvolgere altri gruppi di partecipanti, con qualità e necessità diverse, ci ha spinto a riflettere sul senso profondo dell’iniziativa: quanto appena detto a proposito della terza età vale certamente per ogni gruppo di partecipanti, ciascuno con le proprie caratteristiche ed abilità. Da iniziativa destinata esclusivamente alla terza età, Vasi comunicanti si è aperta alla collaborazione con alcune strutture sanitarie salentine, così come alla partecipazione di chiunque fosse interessato a prendere parte ai laboratori. È così che un progetto incentrato sulla terza età si è trasformato in un confronto (diretto o a distanza) tra persone differenti per generazione, provenienza, competenze e capacità, alla ricerca di tratti comuni e allo stesso tempo intimamente individuali.

2.2 Reminiscenza e narrazione
Altro aspetto mutuato dalle iniziative di creative ageing è l’enfasi posta sui ricordi personali dei partecipanti. Un’attenzione, quella per il vissuto personale, particolarmente importante in occasione del laboratorio condotto presso una RSA locale. Il coinvolgimento degli ospiti di due Case Terapeutiche viceversa, ha richiesto particolare cura nel sollecitare e “maneggiare” i ricordi personali, perché potenzialmente legati ad episodi traumatici o problematici. Come attestato in letteratura, la pratica della reminiscenza comporta benefici in termini di rafforzamento positivo dell’identità, del funzionamento cognitivo e, passando dal piano individuale a quello intersoggettivo, del senso di appartenenza ad una comunità (Toledano-González, et al., 2023).

2.3 Ricerca sociale: “metodi creativi” e raccolta del materiale empirico
L’idea di combinare attività creative (e specificatamente manuali) e dialogo tra partecipanti viene in primis dalla consapevolezza che il lavoro in gruppi possa essere di grande stimolo alla conversazione, all’ascolto e, in ultima analisi, alla creazione di legami sociali (cfr. Wenger, 2006). A questo si aggiunge il riferimento a tutto un filone di ricerca sociale che, riconoscendo lo straordinario potenziale di questa esperienza piuttosto comune, ne sfrutta a pieno le possibilità, ricorrendo ai laboratori creativi come contesto di produzione e raccolta del materiale empirico (opinioni, testimonianze, storie di vita). Questi “metodi creativi” (Giorgi, Pizzolati, & Vacchelli, 2021) si rivelano per altro particolarmente efficaci per il coinvolgimento di soggetti marginalizzati o con difficoltà (di diversa natura e causa) ad esprimersi. Restando ancora nell’alveo della ricerca sociale, e particolarmente dell’approccio qualitativo (Cardano, 2011) i responsabili di progetto si sono infine serviti di ulteriori tecniche di raccolta del materiale empirico (note etnografiche redatte durante i laboratori e un questionario di gradimento semi – strutturato,) che vanno a integrare quanto annotato del dialogo tra partecipanti.

3 Resoconto, risultati, criticità
A partire dall’analisi dei materiali raccolti è stato possibile mettere a punto un resoconto dei laboratori, di valutare le criticità e di trarre alcune conclusioni.

3.1 Analisi dei questionari
Dall’analisi dei questionari emerge una risposta decisamente positiva da parte dei partecipanti.
Tutti hanno infatti espresso un alto livello di soddisfazione e coinvolgimento, sottolineando in particolare la capacità del workshop di stimolare la loro creatività manuale, configurandosi come opportunità eccezionale di esplorare il proprio lato artistico e, allo stesso tempo, di condividere un momento significativo di socializzazione. I partecipanti, insomma, hanno spesso menzionato la gioia di condividere l’esperienza con gli altri: questo aspetto sociale è stato considerato un valore aggiunto che ha arricchito ulteriormente l’esperienza complessiva.
Inoltre, il confronto con esemplari di qualità, tratti dalla collezione del Museo, è stato particolarmente apprezzato, così come la conduzione della visita guidata. La scelta di condurre il laboratorio di ceramica all’interno del Museo è stata dunque un elemento di successo, dal momento che la collezione è stata una fonte di ispirazione per il processo creativo, contribuendo a sviluppare un’atmosfera unica e stimolante.
In sintesi, i risultati del questionario di gradimento hanno confermato che Vasi Comunicanti ha ottenuto i risultati previsti in fase di pianificazione: la combinazione di pratica creativa, visita al museo, ambienti e oggetti a disposizione, opportunità di socializzazione ha dato vita ad un’esperienza assai apprezzata dai partecipanti, ovvero da ciascuno dei gruppi coinvolti, quali che fossero le loro esigenze e abilità.

3.2 Atteggiamenti, storie, discorsi
Le note redatte corroborano quanto emerso dai questionari e consentono, soprattutto, un’analisi più approfondita di quanto avvenuto nel corso dei laboratori. È utile, in questa sede, riassumere i risultati attorno a tre aspetti fondamentali (chiaramente intrecciati tra loro): atteggiamenti e comportamenti del gruppo; ricordi, memorie e testimonianze ricorrenti nelle narrazioni dei partecipanti; riflessioni e prospettive emerse attraverso la conversazione.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si sottolinea come i partecipanti a ciascun gruppo abbiano progressivamente “preso confidenza” con gli spazi, con gli oggetti, con il personale e – cosa più importante – tra loro, ovvero con il loro essere-gruppo. Nel caso del laboratorio presso la RSA Villa Immacolata, gli operatori e il personale della struttura hanno constatato l’allegria, la disinvoltura, la giocosità scherzosa di alcune delle partecipanti, sottolineando il fatto che si trattasse di una assoluta novità. Tornando ai laboratori svolti presso il Museo, la familiarizzazione con i suoi spazi e oggetti è stata particolarmente rapida ed efficace: evidente, soprattutto, il passaggio da una postura passiva e timorosa, tipica del “rituale museale”, ad un atteggiamento propositivo, attivo, a tratti esuberante. Come già rilevato dai questionari, la conduzione brillante della visita guidata e la possibilità di toccare alcuni oggetti hanno giocato un ruolo cruciale. Già nel corso della visita, infatti, molti partecipanti hanno condiviso storie, testimonianze e conoscenze, rompendo i più emblematici divieti museali: toccare e parlare. La visita guidata al museo ha quindi preparato il terreno per i workshop di ceramica. Nel corso della prima parte, occupata dalle indicazioni dei ceramisti per la realizzazione dei vasi (con tecnica a colombino o pizzicato), i partecipanti si sono concentrati sull’argilla, la sua consistenza, la sua duttilità. Anche se assorbiti dagli aspetti materici e tattili, gli artigiani in erba si sono progressivamente aperti al dialogo, sia autonomamente che a partire dagli spunti dei facilitatori. Con ciò giungiamo allora al secondo aspetto, quello relativo a storie ed opinioni emerse nel corso dei laboratori.
Tanto nel corso della visita quanto attorno al tavolo da lavoro, a dominare la conversazione sono state le tradizioni locali, relative soprattutto all’universo domestico (la cucina e la tavola, le faccende domestiche, la cura dei bambini, i giorni di festa), più di rado a feste popolari e riti collettivi, e quasi tutte riconducibili, in maniera diretta o indiretta, al mondo contadino. La tradizione, dunque, come orizzonte comune, dai contorni e connotati in continua definizione, entro il quale i ricordi e le storie di ciascun partecipante hanno trovato eco e comprensione. Un orizzonte che scavalca la conterraneità di molti partecipanti, per lo più salentini. Gli artefatti in ceramica e le loro pratiche di impiego (passato e presente) hanno consentito il confronto – per analogia e differenza – con altre identità e appartenenze territoriali: quelle di altri centri pugliesi (T. e S. provenienti da Canosa di Puglia) noti per l’arte figula, ma con significative differenze in termini di qualità, procedimenti, destinazioni d’uso ecc.; quella di altre regioni mediterranee, con fischietti e lucerne che M., ospite della RSA proveniente dalla Sicilia, ha riconosciuto come oggetti della sua terra; e poi, ancora più lontano, di paesi emblematici per il carattere misto delle loro tradizioni: K., da San Francisco, USA, ci ha raccontato della tradizione, a sua volta tramandata dalle comunità messicane, di rompere dei recipienti pieni di dolciumi (la celebre piñata) – proprio come le pignate che, nei giorni di carnevale, F. e M. (Lequile) facevano rompere ai figli, nascondendo all’interno colombe pronte a volare via.
Abbiamo dunque testato dal vero quanto sottolineato, ormai da diversi anni, da convenzioni e documenti internazionali: e cioè che il patrimonio culturale può essere contemporaneamente risorsa per il rafforzamento delle identità territoriali e per il dialogo interculturale. Ciò è stato possibile grazie ad una precisa scelta, fondata sulla specificità della collezione del Museo. In molti casi, infatti, i laboratori di reminiscenza sono condotti con ricorso ad oggetti personali dei partecipanti. Nel nostro caso, invece, gli oggetti di uso quotidiano conservati al museo si sono offerti come appiglio per ricordi e racconti che, anche quando personalissimi, hanno permesso una più facile immedesimazione tra partecipanti. D’altra parte, è ormai acquisito che la narrazione costituisca uno strategia particolarmente efficace di valorizzazione del patrimonio culturale ( cfr. Bodo, Mascheroni, & Panigada, 2016), sia come strumento didattico/divulgativo, sia come pratica finalizzata al coinvolgimento delle comunità locali (cfr. ibidem; Salerno 2009).
Al pari della ceramica, dunque, i racconti sono materiale dei laboratori: così come per i vasi realizzati, da esporre in occasione della presentazione dell’iniziativa al pubblico, il progetto prevedeva anche la conservazione e diffusione delle storie condivise dai partecipanti. Su questo punto, però, i facilitatori hanno dovuto prendere atto della reticenza dei partecipanti ad essere registrati, ancorché in forma totalmente anonima. Di fronte a questa situazione, il team ha dovuto riflettere e adattare la conduzione dei laboratori. Si è osservato come la richiesta di registrazione raffreddasse l’atmosfera familiare ed amichevole rapidamente creatasi nei gruppi, trasformando la condivisione spontanea di storie in una sorta di performance sottoposta al vaglio dei facilitatori e degli altri partecipanti. Si è quindi scelto di rinunciare alla registrazione: la “ragione patrimoniale” (Poulot, 2006) del museo ne esce ridimensionata, certo, ma a tutto vantaggio della sua accessibilità, della sua trasformazione in un luogo accogliente e sicuro, attraverso quel ripensamento di prerogative ed obiettivi istituzionali sul quale abbiamo già richiamato l’attenzione (e sul quale torneremo nelle conclusioni).
Come già accennato, intento dei laboratori era far emergere anche prospettive ed opinioni rispetto ai processi di patrimonializzazione della ceramica cutrofianese e, per estensione, di tutti quegli artefatti (materiali o immateriali) che difficilmente si inquadrano nel “canone” dei beni culturali, secondo un’accezione idealistica che in Italia stenta a cambiare. I partecipanti hanno riconosciuto e sottolineato l’importanza della tutela e della valorizzazione di simili patrimoni, senza per questo tacerne i risvolti contraddittori o genuinamente problematici: il rischio di spettacolarizzazione e mercificazione (con riferimento all’ormai ventennale boom turistico salentino e pugliese), per prima cosa; ma anche la paradossale trasformazione di oggetti e tradizioni tuttora in uso in proverbiali “pezzi da museo”. La riflessione collettiva ha portato, in merito, alla formulazione di un principio controintuitivo e – proprio per questo – capace di sciogliere il paradosso: perché certi oggetti si conservino nel tempo devono essere usati, così da rimanere attuali. “E se si rompono” – come suggerito da una partecipante all’ultimo laboratorio – “se ne faranno altri, e ci sarà chi ne produce, perché ancora servono.” Centrata su una concezione vivente e dinamica del patrimonio, questa intuizione non solo riassume in maniera esemplare i più recenti indirizzi di heritage management (cfr. Meyer-Bisch, 2009; Fojut, 2009) ma suggerisce un ribaltamento della raison d’être del museo: da sacrario di oggetti consegnati al passato a laboratorio per tramandare e rinnovare l’attualità.
Infine, dai racconti e dai discorsi dei partecipanti è emersa una rappresentazione ambivalente del recente passato testimoniato dalle ceramiche cutrofianesi: la diffusa nostalgia scaturita da oggetti così familiari (spesso in senso letterale) non è mai scaduta nella pura celebrazione dei “tempi andati”, dei quale, invece, si conoscono e ricordano durezze, privazioni, difficoltà – talvolta in maniera bruciante. È il caso di P., classe 1940, che se da una parte apprezza la missione del museo, dall’altra ritiene assurda (e in fin dei conti dolorosa) la moda di esporre, in ristoranti, masserie e case private quelle stesse ceramiche scheggiate e consunte che, durante e dopo la guerra, testimoniavano null’altro che la povertà e gli stenti di molte famiglie. Allo stesso modo, il frequente ricordo dei forni comuni per la panificazione (sollecitato dalla presenza, in collezione, di grandi capase entro le quali si conservavano le frise) porta con sé il calore dei riti di famiglia e i rigori di una quotidianità indigente, la solidarietà della piccola comunità e il sospetto di essere truffati sulla farina e sui prodotti.

Conclusioni: la strada a doppio senso dell’accessibilità
La strada dei ricordi è sempre la più lunga
Come si vede, anche spostando l’attenzione dal piano narrativo a quello argomentativo, le storie personali tornano sempre al centro del discorso – nei laboratori come nella presente restituzione. E questo non solo perché il focus dell’iniziativa, come più volte detto, è stato quello delle memorie dei partecipanti: ma anche perché le distinzioni tra conoscenze ed esperienze, tra saperi e ricordi, tra esperti e profani tendono a sfumare quando i pubblici sono chiamati a dire la propria, soprattutto su un repertorio di oggetti vivissimi nelle loro memorie e nel loro presente (come per le pignate, ancora utilizzatissime per la cottura di legumi, patate e pezzetti di cavallo).
A monte delle coppie oppositive appena richiamate, possiamo individuare la lezione più importante di Vasi Comunicanti nella dis – tensione creatasi tra i poli opposti della storia e della memoria collettiva. Maurice Halbwachs (1987 e 1997), al quale si deve la fondazione di una sociologia della memoria, ha affermato che “la storia non comincia che nel momento in cui finisce la tradizione, cioè nel momento in cui la memoria sociale si estingue o si sfalda” (Halbwachs 1987, p.88). La discontinuità tra ieri e oggi permette quel distanziamento critico necessario all’operazione storiografica, cioè alla redazione di una Storia impersonale, caratterizzata da “precisione astratta” e “relativa semplicità” (ibidem, p. 69), consentendo l’inquadramento di eventi personali e collettivi in cornici più ampie. Per contro, la “memoria collettiva”, che sopravvive attraverso tradizioni ed abitudini, è viva, contingente, tutta impastata con la vita quotidiana: attraverso i gesti, le parole, i ricordi condivisi essa resta attuale, continua.
Di fronte a questi due poli, il museo può – crediamo – scegliere il ruolo di mediatore. Non contenitore asettico di date ed eventi, custode di una storia che si pretende universale, pietrificata in oggetti sempre più incomprensibili ai non addetti ai lavori; né monumento celebrativo alla tradizione, all’immobilità, alle “radici”- assecondando un’accezione oltranzista dell’identità locale che oggi spaventa più che mai. Bensì terreno di incontro tra storia e memoria collettiva, laboratorio dove far dialogare il sapere della scienza e quello dell’esperienza, ritrovando e rilanciando il senso presente degli oggetti del passato.
Il museo, dunque, come dispensa della memoria (come recita il titolo completo dell’iniziativa), dove conserva non solo gli oggetti, ma anche le pratiche che li riguardano e che conferiscono loro significato (cfr. ancora Halbwachs, 1987). E conservarli come ingredienti del e per il presente, attraverso processi creativi realmente aperti alla partecipazione dei pubblici, attraverso iniziative che potremmo definire di artigianato culturale. Plasmato dalle mani e dalle voci dei partecipanti, il patrimonio culturale torna così ad essere un “oggetto aperto”, perché “lo sguardo artigianale” – come ha scritto G. Simondon (2017, p. 43) – “coglie l’oggetto come una materia riformabile, prolungabile,” strappandolo all’alienazione culturale e sociale alla quale è consegnato da processi di musealizzazione statici ed elitari. È un’intera concezione del patrimonio e delle sue istituzioni, del suo valore e dei suoi usi “legittimi” o “illegittimi”, che l’approccio artigianale rimette proficuamente in gioco.
Il “dialogo continuo con i materiali” (Sennett, 2008 p.124) dell’artigiano ha costituito il criterio guida dei laboratori condotti – laddove per materiali dobbiamo intendere tanto le ceramiche conservate nella collezione, quanto i ricordi ad esse legate, quanto infine la materia stessa di cui sono composte. Facendosi laboratorio, il museo – istituzione dall’identità continuamente smarrita – è divenuto accessibile, accedendo a preziose riserve di storie e significati, prestandosi ad un ripensamento profondo della propria natura (vetrina o laboratorio) e del rapporto con i propri pubblici (spettatori o partecipanti).

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